Ing. Marrocco, che ruolo hanno avuto i professionisti della security nell’affrontare l’emergenza Covid?
Il Covid ha tracciato nuovi orizzonti. La frenesia e l’urgenza della situazione ha reso evidente come la sicurezza e i suoi professionisti abbiano – e debbano avere - tempi di ingaggio e di reazione diversi da tutti gli altri. Io e i miei colleghi abbiamo dovuto lavorare senza soste, ma soprattutto siamo stati chiamati a dimostrare in 24, massimo 36 ore, di essere in grado di reagire, comprendere, applicare e attuare i DPCM, adattando le nostre decisioni ad ognuno dei sei decreti che si sono succeduti in soli tre mesi. Insomma, i professionisti della sicurezza hanno dimostrato sul campo che il loro valore aggiunto è essere in grado di agire sotto stress, valutando i rischi e le opportunità, ma soprattutto le risorse a disposizione. Ma per farlo non ci si può improvvisare: c’è bisogno di preparazione continua e di costante aggiornamento. Il professionista della sicurezza oggi deve essere un esperto soprattutto di “Sicurezza Integrata” cioè deve sapere operare scelte che tengano conto della sicurezza sul lavoro, la riservatezza delle informazioni, la continuità operativa, la cyber security con il risultato atteso della tutela completa e messa in sicurezza. Le faccio un esempio reale: un professionista responsabile della sicurezza in una grande realtà bancaria ha dovuto affrontare la Pandemia Covid 19 interpretando ed applicando i vari DPCM, ma è stato necessario anche adattarli a tutti i sotto-protocolli regionali. Nelle scelte attuative si è dovuto tener conto anche del rispetto del GDPR, per esempio nell’utilizzo dei termoscanner e gestione dati sensibili, ma anche della normativa di gestione dei rifiuti pericolosi per ciò che attiene le mascherine usate. Nell’attuazione dello Smart Working si è dovuto garantire sia un adeguato livello di cyber security, la continuità operativa dei servizi ai clienti assieme anche alla conformità alla Legge 81/2017. La nostra competenza prevede dunque capacità di sintesi, selezione, screening, velocità in un’ottica pluridisciplinare. Soprattutto quando manca la possibilità di una progettazione preventiva, come in questo caso.
L’Italia era pronta in termini di risorse ad affrontare questo tsunami?
Le grandi realtà aziendali presenti nel nostro Paese sono già pronte, o meglio lo erano anche prima, avendo all’interno dei loro organico professionisti della sicurezza che altro non hanno dovuto fare, durante l’emergenza sanitaria, che applicare le loro competenze in un ambito diverso.
Il rischio maggiore sono le piccole e medie imprese, dove i professionisti della security mancano e ancora oggi non c’è volontà di investire in consulenti di alto profilo. Spesso è il proprietario, il piccolo imprenditore, a decidere cosa fare, affrontando consapevolmente il rischio della sanzione. Purtroppo è una visione molto italiana: si preferisce rischiare di essere sanzionati piuttosto che affidarsi a qualcuno per una consulenza professionale, giudicandolo, erroneamente, un costo non necessario.
In questi mesi diverse tecnologie – ritorno sull’esempio dei termoscanner - hanno trovato nuove occasioni di applicazione: le grandi imprese hanno chiesto ai professionisti della sicurezza delle relazioni di affidabilità e conformità sui singoli prodotti prima di acquistarli e installarli, le piccole spesso si sono affidate solo al buon senso attuando scelte soprattutto di tipo economico. Nel nostro Paese purtroppo manca ancora un focus sui professionisti della sicurezza, esiste la Norma UNI 10459:2017 che identifica le conoscenze, competenze ed abilità del Professionista della Security, norma che prevede anche certificazioni riconosciute a livello europeo, ma i numeri di professionisti certificati sono talmente limitati da essere poco significativi.
Cosa ci ha insegnato questa emergenza? Cosa auspica succeda nel settore?
Mi auguro che questa situazione sia servita a riscoprire e valorizzare il ruolo del professionista della sicurezza come garante delle soluzioni adottate a tutela sia degli imprenditori che dei cittadini. Nel momento in cui c’è una normativa, non può essere la buona volontà del singolo a farsi garante della sua applicazione, soprattutto perché c’è una sorta di conflitto di interesse tra l’obbligo di adempiere e l’interesse economico che ne deriva.
In Italia questa cultura manca: a definire la distanza da tenere fra due tavolini in un bar spesso è il gestore stesso del bar, non un esperto di sicurezza, che sarebbe l’unico a poter garantire al cliente l’applicazione corretta della norma. Una soluzione, per superare questa insana abitudine a ‘rischiare’, potrebbe essere l’incentivazione statale. Se per gli investimenti in sicurezza si adottasse la stessa politica degli incentivi al risparmio energetico o bonus edilizio, permettendo il recupero dei costi con benefici fiscali al 100% o al 140%, come avviene anche per gli investimenti in informatica, probabilmente sarebbe più facile convincere gli imprenditori ad affrontarli. Oggi, non essendoci incentivi, spesso si vive la messa in sicurezza come un costo. È una visione che va superata e la cui urgenza noi professionisti del settore condividiamo anche con i produttori di tecnologie di qualità.
È necessario fare in modo che questo mercato venga riconosciuto e soprattutto si riconosca l’importanza della qualità e della competenza dei suoi professionisti. Così come in ambito sanitario il consiglio di un farmacista, pur se competente, non può essere paragonato alla diagnosi e alla prescrizione di un medico, l’applicazione della norma o di un protocollo da parte di un esperto non può essere paragonata al buon senso del piccolo proprietario di impresa o al fornitore di impianti. In questo senso il mercato italiano non è ancora maturo, per questo AIPROS si augura che lo Stato decida di promuovere qualche azione concreta per incentivare lo sviluppo di questa cultura.
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